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Le nuove tendenze dell’arte, del cinema e del teatro ventilano all’orizzonte la sostituzione dell’attore o del performer, con elementi che vanno oltre la sua umanità, tramite l’utilizzo di tecnologie virtuali. Fino a che punto il teatro potrà chiamarsi tale in questa prospettiva?
Fulvia Roggero
Attrice e regista teatrale
“Il teatro per me è questo: gli uomini che si mettono insieme per salvarsi l’uno con l’altro” amava ripetere Giorgio Strehler, uno dei registi italiani più importanti del novecento, di cui ricorre quest'anno il ventennale della morte.
La sua visione considerava il fenomeno teatrale come un rito rigoroso e appassionato, a cui ognuno: attore, regista, autore, spettatore, viene chiamato a partecipare con passione e dedizione e dove l’uomo e le sue azioni sono sempre al centro. E' un teatro che vive in una continua dialettica con se stesso e con il mondo che lo circonda, sia quando si tratta di rappresentare tragedie del passato, sia quando si portano in scena le istanze più contemporanee, come nel teatro epico o narrativo di Bertolt Brecht.
Ma in un'epoca non molto distante da quella di cui parliamo, sebbene ancora lontana dalle problematiche attuali, relative al transumanesimo, dalle domande se l'uomo sia veramente necessario e fondamentale nell'arte e nel teatro, accanto alle nascenti teorie sul teatro naturalistico e "vero" di Stanislawsij, padre di tutta la recitazione moderna, ai primi del novecento emerse anche un altro movimento artistico: quello sostenuto da Edward Gordon Craig, attore, scenografo, regista, critico teatrale e teorico del teatro. Egli sosteneva che è inesatto parlare dell’attore come di un artista. Tutta la natura umana tende verso la libertà, quindi l’uomo con il suo bagaglio di emozioni e sentimenti non controllabili come materiale per il teatro, è inutilizzabile poiché, per produrre un’opera d’arte qualsiasi, possiamo lavorare soltanto con quei materiali che siamo in grado di controllare completamente.
E l'uomo non è uno di questi materiali. L’attore deve andarsene e al suo posto deve intervenire una figura inanimata, completamente controllabile, che possiamo chiamare Supermarionetta. Questo accadeva intorno al 1906 e nel tempo la sua idea di teatro non prevalse, ma si proiettò sulla danza e soprattutto sulla scenografia, rispetto alla recitazione di tipo “psicologico”, nata appunto contemporaneamente agli studi di Sigmund Freud e che invece s’impose nei decenni successivi a livello internazionale.
Compiendo un balzo in avanti ai giorni nostri, con il pullulare di tecnologie sempre più sofisticate, attraverso la videoarte, il videoteatro, la performance multimediale, la realtà aumentata e il morphing, anche nel mondo del teatro si sta nuovamente creando una tendenza a superare l’artista come essere umano, per costruire opere artistiche che aspirano alla bellezza e alla perfezione totali.
Vi è da chiedersi: cosa perdiamo e cosa acquisiamo in questo passaggio attraverso la tecnologia della scena? Inoltre: può chiamarsi ancora teatro il risultato di questo processo? Quando nel 1600 furono create mirabolanti macchinerie teatrali, per compiacere le corti committenti d’Europa, sicuramente il pubblico esprimeva grande stupore e meraviglia, così come oggi rimaniamo incantati di fronte ad incredibili effetti di luce, acustici o virtuali. Ma il teatro dove sta?
Molti insigni pensatori e teatranti hanno cercato una risposta a questa domanda.
Un denominatore comune sembra trovare il suo fulcro nel rapporto tra attore e spettatore. Senza pubblico non c’è infatti teatro. Quindi per rimanere nel territorio del teatro non possiamo allontanarci dal flusso della comunicazione umana, che si esplica attraverso il racconto di storie, emozioni, situazioni, con il linguaggio dell’umano. Possiamo arricchire questo dialogo con effetti mirabolanti e perfetti, ma non possiamo eliminare questo rapporto unico, sempre diverso ogni sera, a volte imprevedibile.
Quindi non possiamo allontanarci dall’umano: umano è il pubblico con le sue possibili reazioni, dall’entusiasmo alla freddezza, umano è l’attore con i suoi ondivaghi stati d’animo, che magari compensa con la sua tecnica, umano è anche l’autore e le storie che racconta servendosi del linguaggio del teatro o della danza.
Le storie incarnate in forma di drammaturgia ci forniscono caratteri nei quali ci riconosciamo, in cui rivediamo quel che accade nelle nostre relazioni, nelle nostre famiglie, nei nostri paesi, nelle nostre nazioni, nel nostro mondo.
Sono storie per chiunque, a disposizione di chiunque, simboliche e condensate, possono diventare cassa di risonanza per il genere umano, la società.
Per questo c’è sempre stata l’arte. Per questo non possiamo fare a meno dell’arte. L’arte è come un vaso di Pandora dove sono contenuti la paura, le ansie, i desideri. Tutti questi elementi sono tremendamente umani e proprio per questo imperfetti e costituiscono il fondamento dell’arte. La Supermarionetta, docile e assolutamente asservita al creatore o al regista, non può trovare posto in questo mondo dell’arte, imprevedibile, ma proprio per questo affascinante e insostituibile con elementi subumani o transumani.
E allora viene da pensare che l’uomo, non solo nel campo dell’arte, con le sue istanze di libertà, di capacità di pensiero, di inventiva, di immaginazione è diventato scomodo, ingestibile, forse anche pericoloso per la stabilità dell’assetto sociale.
Il bombardamento di tecnologia, di stimoli visuali, di narrazioni costruite, non fa che abbagliarlo e renderlo sempre più impossibilitato ad esprimersi veramente. Questo pericolo incombe sul genere umano dell’intero globo, chiamato a riconoscere e a salvaguardare, nella nostra società complessa, i rizomi della propria natura: la nostra sfida per il futuro, non farci sommergere da ciò che abbiamo sviluppato. Anche nell’arte, anche nel teatro.
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