Focus Uomo

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Come accogliere i bambini che arrivano da zone di guerra?

IO NON GIOCO ALLA GUERRA

Mariella Lajolo (educatrice, mediatrice dei conflitti e counselor) per focus uomo

Allontanarsi dalla propria terra, come spesso sono costretti a fare i civili in tempo di guerra, costituisce una severa forma di sradicamento e di perdita dei propri punti di riferimento per gli adulti, ma soprattutto per i bambini, che talvolta arrivano da soli, senza una famiglia che garantisca perlomeno la continuità  degli affetti.

Come aiutarli a proiettarsi nel futuro? Come garantire loro un’accoglienza che ne rispetti davvero i bisogni, in una terra estranea, con logiche differenti rispetto a quella da cui provengono?

Più di 5 milioni di persone hanno lasciato l’Ucraina nel corso di pochissimo tempo, basta questo per capire l’assurdità della guerra. Lo sappiamo, nelle guerre di questo secolo e in molte di quello precedente, a essere colpiti sono soprattutto i civili. Immaginiamo cosa vuol dire per loro lasciare le loro case, le loro abitudini i loro affetti. Dagli sguardi delle persone in fuga, dalla loro fatica nello spostamento, si intuisce tutto il male che provoca questa guerra, come tutte le guerre. La condizione di questi profughi, come di tutti quelli morti in questi anni o bloccati sulle diverse frontiere, sono l’atto di accusa più forte al sistema neoliberista, capitalista, come lo si vuole chiamare. Che questo sistema sia democratico, o autocratico o dittatoriale cambia poco dal punto di vista della produzione di diseguaglianze, dell’aumento continuo delle spese militari per la difesa del sistema stesso, della predazione di risorse a danno dei Paesi più deboli, dei crimini ambientali e climatici.

Dall’Ucraina stanno arrivando bambini con le loro famiglie, ma anche minori soli, che magari erano in strutture o perché già non avevano i genitori o una famiglia allargata in grado di accoglierli,  o perché li hanno persi nel conflitto in corso. Allontanarsi dalla propria terra non è una scelta per loro, è l’unica possibilità forse di mettersi in salvo, ma sicuramente significa cesura, taglio netto dietro le proprie spalle di tutto ciò che erano e avevano.  Se la famiglia c’è, perlomeno si mantiene la continuità degli affetti e addirittura in qualche caso  la possibilità di ricongiungersi con qualche parente. Ma se non c’è lo sradicamento è sentito ancora più drammaticamente e a questo si può accompagnare un senso di perenne apprensione, visto che hanno vissuto la distruzione di tutti i riferimenti in pochi giorni. Come aiutarli a proiettarsi nel futuro, a sostenere l’inquietudine che ciò che è accaduto potrebbe ripetersi ancora nella loro vita? Come sostenere la loro speranza nel futuro, considerando le nefandezze a cui sono stati costretti ad assistere?

Come garantire loro un’accoglienza che rispetti alcuni principi base, diritti che in Italia sono ritenuti inalienabili, come il diritto alla protezione in un’ottica di personalizzazione delle cure e contemporaneamente tenere conto di logiche lontane dalle nostre, come lo sono quelle della Terra da cui provengono, in modo tale da far sì che questi bambini non siano ulteriormente vittime di guerra?

In Italia le Istituzioni totali dagli anni ’70, piano, piano, hanno lasciato il posto a luoghi più piccoli, sempre più vicini come struttura e organizzazione ad un ambiente familiare, prima comunità e case famiglia, poi famiglie affidatarie, seguendo la logica della personalizzazione, del riconoscimento della persona come individuo unico e irripetibile, con bisogni e possibilità specifiche, da far emergere, rispettare e far fiorire. Gli istituti, le grandi strutture da noi non esistono più e anche solo pensarli o sentirne parlare ci riporta a scenari lontani e tristi, in quanto il percorso di de-istituzionalizzazione dei minori, degli anziani, dei pazienti psichiatrici, dei disabili, si è compiuto di fronte ai nostri occhi, guidato dalla consapevolezza che la mancanza di relazioni significative e di cure amorevoli, può far ammalare, sia a livello fisico, sia a livello psichico.

Nell’est europeo la storia ha avuto un altro passo. Come non smarrire l’orizzonte dei nostri principi valoriali e contemporaneamente non sovrapporlo a quello altrui?

Sicuramente, per non sbagliare occorre non avere fretta di trovare soluzioni, per quanto si sia pressati dall’emergenza, in quanto in educazione il tempo perso, è da considerarsi tempo guadagnato.

Sicuramente le soluzioni che verranno individuate, devono tener conto di una valutazione personalizzata per ogni bambino e del diritto alla protezione dei legami e della loro continuità: legami con gli altri bambini con cui viveva, legame con gli educatori che gestivano le strutture in Ucraina, legame con i propri familiari lontani, se ancora esistono. Non sostituire i legami, come alcuni vorrebbero fare con l’adozione, istituto giustamente sospeso nei confronti di bambini ucraini, in quanto sarebbe una soluzione affrettata che non terrebbe conto dei legami, che non dobbiamo recidere, piuttosto aiutare a mantenere, aggiungendone altri, che possano rispondere ai bisogni dei minori, piuttosto che a quelli degli adulti, che liberino il loro potenziale, piuttosto che soffocarlo.

Agiamo senza una dimensione temporale, non sappiamo quanto questi bambini si fermeranno con noi, per questo è importante accoglierli, non trascurando l’importanza dell’accompagnamento al ritorno, dare ospitalità non con una logica di appropriazione, ma rispettando la loro libertà di crescere come bambini che devono poter essere lasciati andare, considerando, come sosteneva Maria Montessori, che neanche i genitori biologici sono i padroni dei propri figli, ma “custodi provvisori”, che hanno il compito di sostenere la loro crescita, rispettando l’identità e la singolarità e, nel caso di questi bambini, che arrivano da un posto lontano,  anche la loro cultura di provenienza, altri colori ed altri suoni, che li caratterizzano.

Progettare percorsi insieme a loro, non su di loro, garantendo il radicamento nella propria Terra, mantenendo il diritto alla lingua, garantendo la frequenza a scuola, che per ora avrà poco a che fare con gli apprendimenti curricolari, piuttosto sarà un’ancora di salvezza nel “mare della devastazione”, scandirà ritmi, stimolerà relazioni, permetterà di far emergere e coltivare passioni. Attualmente fare esperienze di quotidianità e crescere nella relazione con i pari, costituisce l’aspetto centrale e, se la permanenza con noi si prolungherà, il prossimo anno scolastico, la sfida sarà il costruire esperienze di inclusione.

Forse l’affidamento familiare dei bambini, ma anche di nuclei familiari, può essere in questo momento la strada che si può provare a percorrere, la formula che può garantire la presenza di adulti che si preoccupino di custodire la quotidianità dei bambini, un’opportunità che non toglie qualcosa, ma una risorsa a una famiglia che ne ha bisogno.

Questi bambini, questi adolescenti purtroppo arrivano in una realtà già molto compromessa, in cui anche molti dei  nostri bambini e ragazzi stanno manifestando disagio e difficoltà profondi, stanno perdendo la dimensione di futuro, come direzione capace di attivarli e renderli protagonisti, in un tempo in cui la prospettiva del domani si arricchisce di continue fragilità. sia grazie all’impatto che la pandemia ha avuto  su di loro, sia in relazione alla guerra, una guerra a noi così vicina, con l’immaginario conflittuale e distruttivo che sta mettendo in gioco. Purtroppo il tessuto sociale e le dinamiche interne del Paese stanno andando progressivamente verso il degrado, così come le capacità di accogliere l’altro, con la sua diversità culturale e di pensiero. Non dimentichiamo che il futuro si costruisce nel presente, per questo tutti coloro che si rendono conto della direzione in cui stiamo andando, si devono unire per aprire una possibilità di futuro per tutti i bambini del mondo, indipendentemente dal popolo di cui fanno parte.

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