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Mungi Ngomane, nipote di Desmond Tutu, arcivescovo e attivista sudafricano, premio Nobel per la pace nel 1984, ci guida alla scoperta della filosofia che ha animato il processo di riconciliazione in Sud Africa. «Io sono perché tu sei»: così i sudafricani riassumono l’ubuntu, cardine di una filosofia antica, fondata sul legame universale che ci unisce in quanto esseri umani.
Nelle lingue xhosa e zulu il concetto di ubuntu è espresso dalla massima umuntu, ngumuntu, ngabantu, letteralmente “una persona è una persona tramite altre persone”. L’essere umano e la sua interconnessione con tutti gli altri esseri umani sta alla base dell’antica filosofia africana, che ha reso possibile il difficile processo di riconciliazione nel Sud Africa post Apartheid.
Il nonno dell’autrice, l’arcivescovo e attivista Desmond Tutu, già premio Nobel per la pace nel 1984, fu scelto per presiedere la Commissione per la Verità e la Riconciliazione, all’indomani delle elezioni che videro Mandela al potere e segnarono la fine della politica di Apartheid. Il desiderio per una pace vera e duratura, che animava il cuore dei due leader sudafricani, guidò la scelta verso un processo di guarigione, piuttosto che di sola giustizia. Dopo anni di oppressione e discriminazione. Mentre madri, mogli e figli piangevano ancora le loro perdite da ambo le parti, la scelta del Sud Africa è stata la più difficile: guarire dall’odio.
Mandela, durante i lunghi anni di prigionia, aveva compreso che la sua missione era proprio questa. Liberare tutto il popolo sudafricano, di qualsiasi colore fosse. Liberare gli oppressi e gli oppressori. La via della compassione e della comprensione, che anima l’ubuntu, rende possibile il perdono. Chi ha l’ubuntu riesce a vedere se stesso negli occhi dell’altro, sa percepire l’umanità, al di là delle azioni ingiuste e di un comportamento oppressivo. Il processo di riconciliazione, pur accordando giustizia per i crimini commessi, si è posto l’obiettivo di educare all’ubuntu, alla scoperta dell’umano in chi, fino a quel momento, era stato catalogato come nemico.
Ogni caso, ogni racconto di crimine commesso e subito, fu trasmesso in televisione. Tutta la Nazione ascoltò il vissuto, il credo, le emozioni e i pensieri, che avevano portato a compiere atti di violenza, sia in favore dell’Apartheid, sia a favore del suo rovesciamento. Donare la propria esperienza all’altro, essere ascoltato e compreso come essere umano, chiedere il perdono a chi ha sofferto, o offrire il proprio perdono a chi ci ha causato sofferenza, sono atti profondamente umani. Atti di guarigione. Scelte di libertà.
L’odio disumanizza l’altro e ci rende ciechi al suo punto di vista e all’esperienza di vita che lo ha reso capace di creare ingiustizia e sofferenza. L’odio disumanizza anche chi lo prova, lo rende schiavo, eternamente prigioniero nell’anima, anche se giuridicamente ormai libero. Credo che uno dei casi più strabilianti di guarigione sia quello della famiglia Biel. Nel 1993 Amy Biel, attivista antiapartheid di razza bianca, fu trascinata fuori dalla sua auto da una folla inferocita, accoltellata e lapidata a morte. Quattro uomini neri furono accusati dell’omicidio e condannati. Durante i lavori della TRC, dopo essere stati ascoltati, gli uomini ricevettero la grazia per aver agito sulla base di motivazioni politiche. I genitori di Amy, non solo accolsero la decisione della Commissione, ma andarono ben oltre. Incontrarono le famiglie di chi aveva ucciso la loro figlia e insieme a queste fondarono un’organizzazione no-profit contro la violenza, la Amy Biel Foundation.
Chi di noi sarebbe in grado di perdonare l’assassino della propria figlia? Come sono riusciti i Biel a perdonare?
Hanno ascoltato la storia dei quattro uomini, la loro infanzia fatta di povertà e discriminazione. Hanno compreso che l’essere disumanizzati come cittadini di serie B fin da piccoli, aveva portato questi uomini a disumanizzare tutti i bianchi. Il bianco era il nemico. La causa di tutti i mali. Quando gli uomini hanno visto Amy, non hanno visto una donna, una persona. Hanno visto il nemico. I genitori di Amy sono riusciti a perdonare, perché hanno deciso di mettersi nei panni di coloro che hanno tolto la vita alla loro figlia. Il perdono è nato dalla consapevolezza che il vero assassino di Amy non era un essere umano, ma l’odio razziale. L’odio era da condannare, non le persone.
L’esempio dei Biel, come altri, ricordati nelle pagine del libro di Mungi Ngobane, mi portano a riflettere sulla mia stessa storia e la mia quotidianità. Quante volte non ho perdonato una parola detta in malo modo, un comportamento percepito come ingiusto o un’azione vissuta come lesiva della mia dignità? Quante volte sono caduta nella trappola di disumanizzare chi aveva tradito la mia fiducia?
Mettersi nei panni dell’altro è possibile. Scegliere di esaminare la situazione, provare a pensare e sentire come la persona che ci ha ferito e sperimentare il suo punto di vista, sono scelte che possono riservare grandi sorprese. Potremmo persino scoprire che anche noi, se fossimo quella persona, con le sue esperienze di vita, le sue difficoltà e il suo modo di pensare, ci saremmo comportati allo stesso modo. Non si tratta di giustificare un comportamento, ma di salvare l’umanità che è dentro ognuno di noi. Vedere l’umano nell’altro. Vedere me, in te. Del comportamento, delle azioni o delle strategie si può discutere, esprimere accordo o disaccordo. Un processo, questo, che ci permette di ampliare la nostra visione, analizzando una questione da molteplici punti di vista. Della nostra umanità, la mia e la tua, non c’è niente da discutere. Va scoperta, rispettata e amata. Sempre e comunque. Anche nelle situazioni più dure.
Questo ci hanno insegnato Nelson Mandela e Desmond Tutu, lasciando a ognuno di noi il compito di continuare a vivere con l’ubuntu nel cuore, in famiglia, nella nostra comunità e nell’affrontare le sfide e le contraddizioni della società attuale.
Bibliografia
Ngomane, M. (2019) Ubuntu: la via africana alla felicità, Ed. Rizzoli
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